Scrive Marcello Veneziani che “la patria è considerata il luogo dell’identità, come la famiglia. Ma l’identità non è data ab origine e
una volta per tutte. Non è inerte, rocciosa e compiuta. L’identità
fluisce, si rifinisce per analogia e per contrasto, persiste cambiando.
Più che all’identità, allusiva di un’impossibile fissità, meglio allora
riferirsi alla tradizione che si trasmette comunicando ed esprime il
mutarsi nella continuità. Nella tradizione si diviene ciò che si è, non
si è per sempre quel che si è stati una volta. La tradizione non sta,
diviene; persiste, ma si modifica”.
Più che escludersi, i due concetti di identità e tradizione si integrano e completano a vicenda. Per quanto i sostenitori della società aperta e della modernità liquida si
sforzino di affermare la possibilità di forgiarsi un’identità del tutto
avulsa dalla tradizione che ci è data, imponendo politiche sociali e
culturali che in nome del progresso cercano di sradicare dalle
fondamenta il modello di civiltà che i popoli europei hanno creato nei
millenni, la realtà effettiva ci riporta sempre alla stessa conclusione:
nasciamo immersi in un orizzonte, siamo figli di una storia
data. Volerla negare significa avviare un processo di letterale
dis-integrazione che ci consegna a un mondo senza senso, senza
direzione, senza orientamenti, nel quale la forza o la violenza di una
minoranza organizzata e consapevole travolge masse informi e incapaci di
reagire. La nostra civiltà è ormai aggredita nelle sue strutture
costitutive da un attacco concentrico, portato avanti nel nome della
lotta ai pregiudizi, con lo stesso schema ideologico che l’illuminismo per primo inaugurò nella sua crociata in nome della ragione contro l’autorità della
tradizione. È nel nome di questa secolare lotta ai pregiudizi che si
smantellano le strutture della parentela, la sacralità della vita, la
costituzione spirituale della civiltà europea. L’arma più potente nelle
mani di chi vuole imporre le politiche gender, le adozioni per
le coppie omosessuali, l’eutanasia, la legalizzazione delle droghe (o
almeno di quelle cosiddette “leggere”), l’accoglienza buonista e
indiscriminata verso i migranti, è quella di crocifiggere gli avversari
con lo stigma del “pregiudizio”: sessista, omofobo, xenofobo, razzista,
bigotto, intollerante… fino a espellerlo dal consorzio del genere umano
(e approvare leggi in Parlamento che puniscono i reati di opinione).
Lo
stesso concetto di “pregiudizio” assume una valenza principalmente
negativa proprio e solo a partire dall’illuminismo. Perché esistono
pregiudizi “negativi” – contro i quali è corretta e legittima la pretesa
della ragione di esercitare fino in fondo i suoi diritti – e pregiudizi
“positivi” – che si fondano anch’essi sull’uso della ragione e
conferiscono autorevolezza a uomini e istituzioni chiamate a svolgere
una funzione di direzione o decisione in una società organizzata.
Nella sua lotta ai pregiudizi, gli estremisti del libero pensiero politicamente corretto
non si accorgono di essere loro stessi vittime dello stesso meccanismo,
che si traduce nel “pregiudizio contro tutti i pregiudizi”. Partendo da
questa riflessione, Hans Georg Gadamer si chiede se sia “proprio vero
che stare dentro a delle tradizioni significhi sottostare a pregiudizi e
subire una limitazione di libertà” e procede a una “riabilitazione di
autorità e tradizione” che passa attraverso il riconoscimento che
esistono “pregiudizi legittimi” che sono “giustificati e produttivi per
la conoscenza”: se è vero che l’autorità è fonte di pregiudizi, “non è
escluso che possa essere anche una fonte di verità, ed è questo che
l’illuminismo ha misconosciuto con la sua indiscriminata diffamazione
dell’autorità”. Diffamazione che ha prodotto nel tempo una vera e
propria deformazione del concetto di autorità, ormai sempre più
associato terminologicamente a “sottomissione, imposizione, dittatura”,
che tanta parte ha nella dissoluzione del rispetto delle Istituzioni e
del senso dello Stato. Autorità non è sinonimo di “autoritarismo”, ma è
strettamente associato all’autorevolezza che nasce dalla
rivendicazione e dal riconoscimento (operato dalla ragione stessa) di
una superiore facoltà di conoscenza e migliore capacità di giudizio
nell’interesse comune.
Per
concludere con le parole di Gadamer, “la tradizione è sempre un momento
della libertà (…). Anche la più autentica e solida delle tradizioni non
si sviluppa naturalmente in virtù della forza di persistenza di ciò che
una volta si è verificato, ma ha bisogno di essere accettata, di essere
adottata e coltivata. Essa è essenzialmente conservazione, quella
stessa conservazione che è in opera accanto e dentro a ogni mutamento
storico. Ma la conservazione è un atto della ragione. (…) Persino nelle
epoche di rivoluzione, nel preteso mutamento di tutte le cose si
conserva del passato molto più di quanto chiunque immagini, e si salda
insieme al nuovo acquistando una rinnovata validità”. Il passato
tramandato è qualcosa che ci parla e ci interpella quotidianamente.
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