martedì 15 maggio 2018

IL RECUPERO DELLA TRADIZIONE


Scrive Marcello Veneziani che “la patria è considerata il luogo dell’identità, come la famiglia. Ma l’identità non è data ab origine e una volta per tutte. Non è inerte, rocciosa e compiuta. L’identità fluisce, si rifinisce per analogia e per contrasto, persiste cambiando. Più che all’identità, allusiva di un’impossibile fissità, meglio allora riferirsi alla tradizione che si trasmette comunicando ed esprime il mutarsi nella continuità. Nella tradizione si diviene ciò che si è, non si è per sempre quel che si è stati una volta. La tradizione non sta, diviene; persiste, ma si modifica”.
Più che escludersi, i due concetti di identità e tradizione si integrano e completano a vicenda. Per quanto i sostenitori della società aperta e della modernità liquida       si sforzino di affermare la possibilità di forgiarsi un’identità del tutto avulsa dalla tradizione che ci è data, imponendo politiche sociali e culturali che in nome del progresso cercano di sradicare dalle fondamenta il modello di civiltà che i popoli europei hanno creato nei millenni, la realtà effettiva ci riporta sempre alla stessa conclusione: nasciamo immersi in un orizzonte, siamo figli di una storia data. Volerla negare significa avviare un processo di letterale dis-integrazione che ci consegna    a un mondo senza senso, senza direzione, senza orientamenti, nel quale la forza o la violenza di una minoranza organizzata e consapevole travolge masse informi e incapaci di reagire. La nostra civiltà è ormai aggredita nelle sue strutture costitutive da un attacco concentrico, portato avanti nel nome della lotta ai pregiudizi, con lo stesso schema ideologico che l’illuminismo per primo inaugurò nella sua crociata in nome della ragione contro l’autorità della tradizione. È nel nome di questa secolare lotta ai pregiudizi che si smantellano le strutture della parentela, la sacralità della vita, la costituzione spirituale della civiltà europea. L’arma più potente nelle mani di chi vuole imporre le politiche gender, le adozioni per le coppie omosessuali, l’eutanasia, la legalizzazione delle droghe (o almeno di quelle cosiddette “leggere”), l’accoglienza buonista e indiscriminata verso i migranti, è quella di crocifiggere gli avversari con lo stigma del “pregiudizio”: sessista, omofobo, xenofobo, razzista, bigotto, intollerante… fino a espellerlo dal consorzio del genere umano (e approvare leggi in Parlamento che puniscono i reati di opinione).
Lo stesso concetto di “pregiudizio” assume una valenza principalmente negativa proprio e solo a partire dall’illuminismo. Perché esistono pregiudizi “negativi” – contro i quali è corretta e legittima la pretesa della ragione di esercitare fino in fondo i suoi diritti – e pregiudizi “positivi” – che si fondano anch’essi sull’uso della ragione e conferiscono autorevolezza a uomini e istituzioni chiamate a svolgere una funzione di direzione o decisione in una società organizzata.
Nella sua lotta ai pregiudizi, gli estremisti del libero pensiero politicamente corretto non si accorgono di essere loro stessi vittime dello stesso meccanismo, che si traduce nel “pregiudizio contro tutti i pregiudizi”. Partendo da questa riflessione, Hans Georg Gadamer si chiede se sia “proprio vero che stare dentro a delle tradizioni significhi sottostare a pregiudizi e subire una limitazione di libertà” e procede a una “riabilitazione di autorità e tradizione” che passa attraverso il riconoscimento che esistono “pregiudizi legittimi” che sono “giustificati e produttivi per la conoscenza”: se è vero che l’autorità è fonte di pregiudizi, “non è escluso che possa essere anche una fonte di verità, ed è questo che l’illuminismo ha misconosciuto con la sua indiscriminata diffamazione dell’autorità”. Diffamazione che ha prodotto nel tempo una vera e propria deformazione del concetto di autorità, ormai sempre più associato terminologicamente a “sottomissione, imposizione, dittatura”, che tanta parte ha nella dissoluzione del rispetto delle Istituzioni e del senso dello Stato. Autorità non è sinonimo di “autoritarismo”, ma è strettamente associato all’autorevolezza che nasce dalla rivendicazione e dal riconoscimento (operato dalla ragione stessa) di una superiore facoltà di conoscenza e migliore capacità di giudizio nell’interesse comune.
Per concludere con le parole di Gadamer, “la tradizione è sempre un momento della libertà (…). Anche la più autentica e solida delle tradizioni non si sviluppa naturalmente in virtù della forza di persistenza di ciò che una volta si è verificato, ma ha bisogno di essere accettata, di essere adottata e coltivata. Essa è essenzialmente conservazione, quella stessa conservazione che è in opera accanto e dentro a ogni mutamento storico. Ma la conservazione è un atto della ragione. (…) Persino nelle epoche di rivoluzione, nel preteso mutamento di tutte le cose si conserva del passato molto più di quanto chiunque immagini, e si salda insieme al nuovo acquistando una rinnovata validità”. Il passato tramandato è qualcosa che ci parla e ci interpella quotidianamente.

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