L’esigenza
di riscoprire il valore della “Patria” nella politica contemporanea
nasce dalla riflessione provocata dagli esiti conseguenti a decenni di
rimozione, negazione e svilimento di questo concetto. Processo storico e
culturale che ha avuto la sua massima fecondità a partire dagli anni
sessanta, che ha prodotto quell’Europa (sia come Istituzione formale che
come sommatoria dei suoi singoli Stati) oggi caratterizzata dal mito
dell’integrazione e del superamento delle nazionalità, forgiata su
apparati burocratici che in luogo di un federalismo rispettoso delle
diversità somiglia ormai a un politburo di sapore sovietico.
Un’Europa che negando le sue radici giudaico-cristiane e classiche,
subordina le esigenze di identità e autonomia dei popoli a quelle di un
universalismo radicale che opera in sintonia con un astratto principio
multiculturalista, da cui deriva anche l’assenso all’indiscriminato e
incontrollato accesso di persone da altri continenti in numeri che
prefigurano una vera e propria sostituzione etnica (peraltro, auspicata
sin dal 2001 dal Dipartimento Affari Sociali ed economici – Direzione
Popolazione dell’ONU con la teoria del remplacement migration per rimpiazzare il calo demografico europeo) e con scenari che somigliano all’inquietante profezia del Campo dei Santi di Jean Raspail; che opera attraverso schemi preconfezionati dall’ideologia del politicamente corretto che
Alain Finkielkraut ha qualificato come il “conformismo ideologico dei
nostri tempi”, marginalizzando lo spazio di dibattito nel quale si forma
l’opinione pubblica e criminalizzando le posizioni eccentriche rispetto
a tale schema; e che, come logica conseguenza di tali presupposti, ha
prodotto la condizione attuale caratterizzata dalla rinuncia,
dall’autocensura e dalla negazione della propria identità.
Per
ricostruire l’Italia – e attraverso di essa l’Europa – è necessario
sviluppare una “filosofia dell’identità”, nel senso proposto da Renato
Cristin: una “teoria di riappropriazione ontologica e di conservazione dinamica dell’identità
europea, nella quale si esplicita una critica radicale del
multiculturalismo e del politicamente corretto, della tendenza
all’autocolpevolizzazione e della retorica dell’alterità”.
Conferire
di nuovo un valore centrale al concetto di patria nell’agire politico è
una missione particolarmente difficile – e urgente – in Italia. Mentre,
solo per stare in Europa, tutte le nazioni hanno uno spiccato senso
dell’appartenenza, una chiara rappresentazione degli interessi da
difendere, una robusta cornice di miti e riti fondanti, in Italia questi
elementi o non esistono o sono stati debolmente riscoperti solo dopo
decenni di abbandono. Abbiamo dovuto attendere l’ingresso di Ciampi al
Quirinale per riscoprire e valorizzare i simboli, le cerimonie, i riti
laici attraverso i quali si manifesta una comunità nazionale, compresa
la rivalutazione di quell’inno (fino a pochi giorni fa ancora
“provvisorio”) che il nostro Movimento esibisce con orgoglio nella sua
denominazione, ma che molti si vergognavano a cantare.
Le
ragioni che hanno prodotto, nell’Italia repubblicana, quella che
Ernesto Galli della Loggia definisce la “morte della patria” sono note
e, per usare le sue parole, nella “situazione apertasi con la crisi del
’43 nessun soggetto politico italiano poté più permettersi di perseguire
l’interesse nazionale del paese e basta” e “divenne necessario
individuare preliminarmente i diversi progetti stranieri esistenti
sull’Italia, e tra essi decidere quale si confacesse di più ai propri
convincimenti in proposito”. Una classe dirigente (politica, economica,
culturale) che non è stata “educata” a coltivare il sentimento di
patria, inevitabilmente soccombe negli scenari internazionali,
caratterizzati da una forte competitività, e spesso si fa vanto
dell’accondiscendenza verso le ragioni e gli interessi altrui, bollando
come “provincialismo” l’atteggiamento contrario. Un progetto politico di
lungo respiro che voglia davvero sanare questa ferita, non può che
trovare nella scuola e nell’università – e quindi nella formazione di
nuove generazioni consapevoli della loro appartenenza a una comunità
nazionale
– uno dei terreni privilegiati di impegno.
L’errore
capitale commesso nella costruzione dell’Unione Europea è stato quello
di voler fare a meno delle identità delle nazioni che la compongono,
ignorando che le nazioni sono “organismi viventi” (secondo la lezione
di Herder): invece di valorizzare queste ricchezze e la loro comune
matrice (da cui è nata l’idea stessa di Europa), i tecnoburocrati di
Bruxelles continuano a proclamare (con il supporto di tutto l’apparato
mediatico, intellettuale e accademico) l’esigenza di spogliare gli Stati
nazionali delle loro prerogative per “cedere sovranità all’Unione
Europea”, rendendo i cittadini sempre più distanti da un’Istituzione
fredda e astratta. Quando, al contrario, l’unica possibilità che ha una
nazione di esistere (Europa compresa) è quella di rinnovare
continuamente l’atto di libera volontà che porta a scegliere di
appartenere a un comune destino. Come diceva Ernest Renan, la nazione è
“un plebiscito di tutti i giorni”, e giustamente Giovanni Gentile
ammoniva che “suolo, vita comune, comunanza di usi e costumi, linguaggio
e tradizione”, sono solo la “materia” di cui è costituita la nazione,
che non è tale se non “avrà la coscienza di questa materia e non
l’assumerà nella sua coscienza come il contenuto costitutivo della
propria essenza spirituale e non ne farà oggetto della propria volontà”.
Quel che vale per una nazione vale a maggior ragione per una
confederazione di Stati, dove serve uno sforzo supplementare di libera scelta per motivare cessioni di sovranità e sublimazioni di particolarità nazionali.
La
debolezza dell’identità culturale delle nazioni europee le rende più
soggette all’aggressione dell’Islam radicale e militante, refrattario
all’integrazione e nutrito di quella “nevrosi del colonizzato” che Jean
Paul Sartre descriveva (e giustificava) quando celebrava con toni
apologetici la “violenza irrefrenabile” che avrebbe prodotto “l’uomo
nuovo” di “qualità migliore” a spese della civiltà europea
“colonialista” e “imperialista”. Accecata dall’autoflagellante condanna
dell’odio dello straniero che le popolazioni autoctone europee
manifesterebbero contro i migranti (senza mai cercare di comprenderne
davvero le ragioni di crescente insofferenza), l’ideologia e le caste
dominanti al potere non si accorgono dell’odio dello straniero,
inteso nel senso del genitivo soggettivo, e cioè dell’odio che una
parte sempre più consistente di stranieri (e persino di cittadini di
seconda o terza generazione di origine straniera) nutre nei confronti
della popolazione che li ha accolti. Con conseguenze devastanti per la
pace sociale e il futuro della convivenza civile come dimostrano le
stragi di Parigi, Nizza, Barcellona, Londra, Berlino… Tra queste
conseguenze, vi è anche il risorgere di nazionalismi aggressivi e
intolleranti e di teorie “suprematiste della razza bianca” che
sembravano ormai archiviate dalla Storia. Ora come sempre, l’antidoto
alle regressioni nazionalistiche e alla brutale conflittualità che
queste produrrebbero, sta nel coltivare un sano sentimento patriottico,
fondato sulla difesa e valorizzazione delle diversità, delle
specificità, della ricchezza e pluralità di culture e stili di vita.
Tutto l’opposto della standardizzazione, dell’omologazione,
dell’appiattimento richiesti e imposti dalla globalizzazione selvaggia,
nella quale si fondono l’utopia internazionalista vetero-comunista, il
terzomondismo pauperista e la pratica commerciale mondialista delle
grandi multinazionali.
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