martedì 15 maggio 2018

UNA FILOSOFIA DELL'IDENTITA'


L’esigenza di riscoprire il valore della “Patria” nella politica contemporanea nasce dalla riflessione provocata dagli esiti conseguenti a decenni di rimozione, negazione e svilimento di questo concetto. Processo storico e culturale che ha avuto la sua massima fecondità a partire dagli anni sessanta, che ha prodotto quell’Europa (sia come Istituzione formale che come sommatoria dei suoi singoli Stati) oggi caratterizzata dal mito dell’integrazione e del superamento delle nazionalità, forgiata su apparati burocratici che in luogo di un federalismo rispettoso delle diversità somiglia ormai a un politburo di sapore sovietico. Un’Europa che negando le sue radici giudaico-cristiane e classiche, subordina le esigenze di identità e autonomia dei popoli a quelle di un universalismo radicale che opera in sintonia con un astratto principio multiculturalista, da cui deriva anche l’assenso all’indiscriminato e incontrollato accesso di persone da altri continenti in numeri che prefigurano una vera e propria sostituzione etnica (peraltro, auspicata sin dal 2001 dal Dipartimento Affari Sociali ed economici – Direzione Popolazione dell’ONU con la teoria del remplacement migration per rimpiazzare il calo demografico europeo) e con scenari che somigliano all’inquietante profezia del Campo dei Santi di Jean Raspail; che opera attraverso schemi preconfezionati dall’ideologia del politicamente corretto che Alain Finkielkraut ha qualificato come il “conformismo ideologico dei nostri tempi”, marginalizzando lo spazio di dibattito nel quale si forma l’opinione pubblica e criminalizzando le posizioni eccentriche rispetto a tale schema; e che, come logica conseguenza di tali presupposti, ha prodotto la condizione attuale caratterizzata dalla rinuncia, dall’autocensura e dalla negazione della propria identità.
Per ricostruire l’Italia – e attraverso di essa l’Europa – è necessario sviluppare una “filosofia dell’identità”, nel senso proposto da Renato Cristin: una “teoria di riappropriazione ontologica e di conservazione dinamica dell’identità europea, nella quale si esplicita una critica radicale del multiculturalismo e del politicamente corretto, della tendenza all’autocolpevolizzazione e della retorica dell’alterità”.
Conferire di nuovo un valore centrale al concetto di patria nell’agire politico è una missione particolarmente difficile – e urgente – in Italia. Mentre, solo per stare in Europa, tutte le nazioni hanno uno spiccato senso dell’appartenenza, una chiara rappresentazione degli interessi da difendere, una robusta cornice di miti e riti fondanti, in Italia questi elementi o non esistono o sono stati debolmente riscoperti solo dopo decenni di abbandono. Abbiamo dovuto attendere l’ingresso di Ciampi al Quirinale per riscoprire e valorizzare i simboli, le cerimonie, i riti laici attraverso i quali si manifesta una comunità nazionale, compresa la rivalutazione di quell’inno (fino a pochi giorni fa ancora “provvisorio”) che il nostro Movimento esibisce con orgoglio nella sua denominazione, ma che molti si vergognavano a cantare.
Le ragioni che hanno prodotto, nell’Italia repubblicana, quella che Ernesto Galli della Loggia definisce la “morte della patria” sono note e, per usare le sue parole, nella “situazione apertasi con la crisi del ’43 nessun soggetto politico italiano poté più permettersi di perseguire l’interesse nazionale del paese e basta” e “divenne necessario individuare preliminarmente i diversi progetti stranieri esistenti sull’Italia, e tra essi decidere quale si confacesse di più ai propri convincimenti in proposito”. Una classe dirigente (politica, economica, culturale) che non è stata “educata” a coltivare il sentimento di patria, inevitabilmente soccombe negli scenari internazionali, caratterizzati da una forte competitività, e spesso si fa vanto dell’accondiscendenza verso le ragioni e gli interessi altrui, bollando come “provincialismo” l’atteggiamento contrario. Un progetto politico di lungo respiro che voglia davvero sanare questa ferita, non può che trovare nella scuola e nell’università – e quindi nella formazione di nuove generazioni consapevoli della loro appartenenza a una comunità nazionale
– uno dei terreni privilegiati di impegno.
L’errore capitale commesso nella costruzione dell’Unione Europea è stato quello di voler fare  a meno delle identità delle nazioni che la compongono, ignorando    che le nazioni sono “organismi viventi” (secondo la lezione di Herder): invece di valorizzare queste ricchezze e la loro comune matrice (da cui è nata l’idea stessa    di Europa), i tecnoburocrati di Bruxelles continuano a proclamare (con il supporto di tutto l’apparato mediatico, intellettuale e accademico) l’esigenza di spogliare gli Stati nazionali delle loro prerogative per “cedere sovranità all’Unione Europea”, rendendo i cittadini sempre più distanti da un’Istituzione fredda e astratta. Quando, al contrario, l’unica possibilità che ha una nazione di esistere (Europa compresa)    è quella di rinnovare continuamente l’atto di libera volontà che porta a scegliere     di appartenere a un comune destino. Come diceva Ernest Renan, la nazione è “un plebiscito di tutti i giorni”, e giustamente Giovanni Gentile ammoniva che “suolo, vita comune, comunanza di usi e costumi, linguaggio e tradizione”, sono solo la “materia” di cui è costituita la nazione, che non è tale se non “avrà la coscienza di questa materia e non l’assumerà nella sua coscienza come il contenuto costitutivo della propria essenza spirituale e non ne farà oggetto della propria volontà”. Quel che vale per una nazione vale a maggior ragione per una confederazione di Stati, dove serve uno sforzo supplementare di libera scelta per motivare cessioni di sovranità e sublimazioni di particolarità nazionali.
La debolezza dell’identità culturale delle nazioni europee le rende più soggette all’aggressione dell’Islam radicale e militante, refrattario all’integrazione e nutrito di quella “nevrosi del colonizzato” che Jean Paul Sartre descriveva (e giustificava) quando celebrava con toni apologetici la “violenza irrefrenabile” che avrebbe prodotto “l’uomo nuovo” di “qualità migliore” a spese della civiltà europea “colonialista” e “imperialista”. Accecata dall’autoflagellante condanna dell’odio dello straniero che  le popolazioni autoctone europee manifesterebbero contro i migranti (senza mai cercare di comprenderne davvero  le ragioni di crescente insofferenza), l’ideologia  e le caste dominanti al potere non si accorgono dell’odio dello straniero, inteso nel senso del genitivo soggettivo, e cioè dell’odio che una parte sempre più consistente di stranieri (e persino di cittadini di seconda o terza generazione di origine straniera) nutre nei confronti della popolazione che li ha accolti. Con conseguenze devastanti per la pace sociale e il futuro della convivenza civile come dimostrano le stragi di Parigi, Nizza, Barcellona, Londra, Berlino… Tra queste conseguenze, vi è anche il risorgere di nazionalismi aggressivi e intolleranti e di teorie “suprematiste della razza bianca” che sembravano ormai archiviate dalla Storia. Ora come sempre, l’antidoto alle regressioni nazionalistiche e alla brutale conflittualità che queste produrrebbero, sta nel coltivare un sano sentimento patriottico, fondato sulla  difesa e valorizzazione delle diversità, delle specificità, della ricchezza e pluralità   di culture e stili di vita. Tutto l’opposto della standardizzazione, dell’omologazione, dell’appiattimento richiesti e imposti dalla globalizzazione selvaggia, nella quale si fondono l’utopia internazionalista vetero-comunista, il terzomondismo pauperista e la pratica commerciale mondialista delle grandi multinazionali.

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